LA SOLITUDINE DEI NUMERI NOVE
Durante un calciomercato, incrociai Silvano Bini, allora potente autocrate dell’Empoli, che con la sua solita aria sorniona mi fece a mezza bocca: “…tutti vogliono un numero nove, i miei dirigenti mi perseguitano, ma senza soldi un si può fare…”. Quella frase, io lo sapevo, nascondeva dietro l’apparente rassegnazione, un asso nella manica. Così non mi ci volle granché per scoprire la verità. Aveva scovato un giovanottone friulano aitante e biondo, di quelli che potevano fare il carabiniere in Pane amore e fantasia con la Lollobrigida. Gianfranco Cinello a Como aveva fatto poco e nulla. Bini lo ingaggiò per due lire e mi disse “…vedrai, vedrai…” A Empoli, in due anni mise a segno una ventina di gol prima di finire alla Triestina per 800 milioni.
Ecco i centravanti sono così, risplendono solo se accompagnati dalla magia del gol. Tutto il resto conta poco. Nascono centravanti, o lo diventano, quasi per caso. Il numero nove gli si attaccava sulle spalle (quando ancora i numeri del calcio rispettavano la giusta ritualità) e guai a toccargli quella maglia. Ma soprattutto sono difficili da scoprire. Pensate che Gigi Riva o Ronaldo, furono scartati dall’Inter perché gracilini. Il centravanti s’immagina forte come un toro, abile di testa e con un tiro fulminante. Beppe Virgili arrivò preceduto dalla fama della sua vigoria. Tecnicamente non era niente di che ma era una forza della natura. Al primo allenamento colpì al volo un traversone e invece della porta beccò la bandierina del calcio d’angolo. Quando Sergio Cervato me lo raccontava schiantava dal ridere. Ma Virgili nell’anno del primo scudetto viola mise a segno 21 gol e giustamente ancora si vanta della tripletta che realizzò con il Brasile.
Del resto, in tempi più recenti, Gabriel Omar Batistuta appena in viola fu chiamato il nuovo Dertycia, argentino anche lui che però non ebbe il tempo di trovar fortuna. Batistuta sembrava litigare spesso con il pallone ma era forte e soprattutto tenace, migliorò così tanto da diventare Bati-gol. Ma il numero nove può essere anche diverso dall’icona tradizionale. Pensate a Paolo Rossi. Veloce, minuto, scattante, da ragazzo alla Cattolica Virtus (prima che la Juventus lo soffiasse alla Fiorentina) era partito da ala destra, poi il suo senso del gol indusse i suoi allenatori ad avvicinarlo all’area di rigore. Lui come il suo idolo “Uccellino” Hamrin, imboccò la strada del centravanti agile e veloce. C’è anche chi, con il numero nove sulle spalle, faceva finta di fare il centravanti per essere invece il cervello della squadra. Nandor Hidekguti fu il maestro della grande Ungheria degli anni cinquanta, impersonando il ruolo di centravanti arretrato, supportando magistralmente Ferenc Puskas. E Puskas ebbe la fortuna di giocare accanto ad un altro professore di calcio Alfredo Di Stefano, anche lui centravanti sui generis, che comunque in 372 partite con il Real Madrid, mise a segno 332 gol.
E, sfogliando l’antologia del calcio, si potrebbe procedere per giorni e giorni. Di centravanti ce ne sono di tutti i tipi. Alti, grossi, forti, veloci ma sempre e comunque destinati a star da soli lì davanti se non vengono assistiti dai compagni. Spesso si dice che il centravanti patisce la stessa solitudine del portiere. La Fiorentina ha un ottimo impianto di gioco. Centrocampisti e esterni sono coinvolti tutti nella costruzione delle manovra offensiva. In questa Fiorentina manca il centravanti, il mitico numero nove che completerebbe come meglio non si può questa squadra. C’è l’impegno della società a risolvere il problema, c’è la volontà dei Della Valle a tappare questa ultima falla. Abbiamo fiducia. E il prescelto stia tranquillo, nella squadra viola, si troverà in buona compagnia. Aveva un bel dire Eugenio Montale a sognare un calcio dove nessuno fa gol. Senza il gol il calcio svanisce nel vuoto.
Massimo Sandrelli. Giornalista, Rtv38