PRANDELLI, ECCO LA MIA RICETTA PER GUARIRE IL CALCIO

14.10.2008 18:37 di  Redazione FV   vedi letture
PRANDELLI, ECCO LA MIA RICETTA PER GUARIRE IL CALCIO
FirenzeViola.it

Cesare Prandelli sogna "due anni senza scudetti, promozioni e retrocessioni: giocare per il piacere di giocare, portando i bambini allo stadio". Il tecnico della Fiorentina, intervistato da 'Famiglia Cristiana', rivela la sua personale ricetta per guarire il calcio dai suoi mali.

Di seguito ecco il testo integrale dell'intervista con l'allenatore della Fiorentina:

Nel calcio furioso, in cui ci si scanna per essere speciali, abita un signore esotico che vorrebbe tanto conservarsi normale, pur allenando in Champions League. Si chiama Cesare Prandelli. «Il calcio», racconta guardando lontano, «ha paura della normalità. È un mondo malato: va veloce, brucia emozioni e sentimenti. Ogni obiettivo viene subito scavalcato da un altro. Da persone sane di mente, la sfida è lavorare senza farsi troppo contagiare».
A volte l’equilibrio è un esercizio da giocolieri: «Soprattutto per ragazzi di vent’anni: troppi si aspettano tanto e subito, la piazza ti porta dalle stelle alle stalle in una settimana. Il metro con cui si valuta un calciatore non è l’età ma lo stipendio. Guadagni tanto e devi rendere in proporzione. Ma non è automatico, tutti a vent’anni abbiamo fatto errori. Non si tratta solo di tecnica, ma di imparare a gestire emozioni e tensioni».
Qualcosa che da allenatori si può insegnare, ma solo un po’: «Per essere credibile devi essere te stesso. Alcuni allenatori diventano per i ragazzi un riferimento dal punto di vista tattico e tecnico: sono maestri che trasmettono conoscenze. Altri puntano molto sulla gestione del gruppo. La nuova generazione è più completa: cerca di conciliare i due aspetti. Io sono arrivato dal settore giovanile con delle idee e cerco di portarle avanti in Serie A, sapendo che all’inizio troverò difficoltà».

C’è di mezzo un’idea di vita, non solo il calcio: «Chiedo a tutti di arrivare al campo con la voglia di imparare qualcosa. E non è sempre ovvio per giocatori che hanno già fatto esperienze e credono di aver raggiunto certezze. Ma solo mettendosi in discussione si cresce come calciatori e come persone».
E il campione secondo Prandelli si vede almeno altrettanto fuori dalle righe bianche che delimitano il suo campo: «Un campione ha spessore, unisce a qualità tecniche straordinarie doti di aggregazione. È un leader, magari silenzioso, e resta tale nel tempo».
Visibilità è responsabilità. Una faccia nota può rivelarsi un privilegio ingombrante. Prandelli lo sa: «Faccio un lavoro che mi piace ed è una grande fortuna, la stessa che auguro ai miei figli. Molti miei amici soffrono il fatto di non aver potuto scegliersi il mestiere. Ammetto, però, che mi piace molto il lato che mi tiene in campo assieme alla squadra; sono un po’ meno portato, anche se faccio del mio meglio, per la parte che viene dopo la doccia».
A volte il confine tra lavoro e vita diventa fragile, crudele persino, quando la vita non lascia scegliere e ti fa vivere in pubblico anche il dolore più privato, facendoti desiderare di passare per una volta inosservato: «A dire il vero desidererei ogni giorno poter uscire dal campo e fare la vita di tutti, ma un volto noto dà a quel che ti accade una risonanza diversa. In certe situazioni devi almeno trasmettere quello che provi, perché te lo chiedono in tanti. Ti fai violenza e lo fai, anche se vai a toccare una sfera molto, ma molto, privata e personale».
Restano i rifugi, i legami, le radici, come un antidoto: «Per me contano molto. Il paese, gli amici, mia madre, le sorelle. La casa che ho a Orzinuovi è quella in cui sono nato, tutto ha un significato preciso, ci torno appena posso».
Un riferimento stabile dentro un pallone che cambia maglie a ogni stagione: «È giusto che cambiando squadra un giocatore trasporti tutta la passione. I tifosi danno sentimenti veri, hanno diritto a essere ricambiati, anche se nel calciomercato di oggi è difficile indossare una sola maglia. Non per questo, se uno dice che sta bene in un posto è ruffiano: trovi una città che ti coccola e ti dà stimoli. Che puoi volere di più?».
Si cambia anche per ritrovarsi. Il discorso vola ad Alberto Gilardino che, dal rossonero al viola, ha ritrovato d’incanto la porta perduta: «Solo l’anno scorso non ha reso come al solito. A volte, in una grande società con grandissimi campioni, un giocatore deve continuamente dimostrare qualcosa, può capitare di giocare meno sereni».
E Firenze è un posto cui è riuscita persino la magia di rasserenare un manipolo di ultrà scalmanati: «Lo stile di una squadra è nelle persone che la dirigono. L’attuale proprietà della Fiorentina ci facilita il lavoro. Mi piace il modo con cui si affrontano i problemi, con fermezza, buonsenso e voglia di ascoltare».
Parole che si attagliano benissimo a Prandelli, che sulle polemiche fa il pompiere: «Sono così. Dopo tanti anni mi stupisco ancora delle discussioni sul nulla. Ognuno porta l’acqua al suo mulino, ma per quanto mi riguarda, lo si fa nel rispetto delle cose e delle persone. Attorno al calcio italiano c’è gente che campa di polemiche rinfocolate all’infinito. Si sbaglia sempre: se giochi bene ti dicono che non sei cinico, se sei concreto che manca lo spettacolo. In Spagna, in Inghilterra, si parla per cinque minuti dopo la partita e ci si dà appuntamento allo stadio la settimana successiva».
Cesare Prandelli da ragazzo aveva passione per l’arte, un po’ la coltiva ancora, riempiendosi gli occhi di Firenze e, per dirla con parole sue, «con qualche scarabocchio ogni tanto». Gli abbiamo chiesto di disegnare il calcio che vorrebbe.
Ha scelto uno stile di rottura come l’arte contemporanea che predilige: «Due anni senza scudetti, promozioni e retrocessioni: giocare per il piacere di giocare, portando i bambini allo stadio. Sarebbe un modo provocatorio di riportare il calcio italiano a una cultura che sappia riconcentrarsi sul calcio giocato».
Prandelli non è abbastanza ingenuo da illudersi che gli daranno ascolto, ma è uno che sa stare al gioco e accetta lo scherzo di far campagna acquisti attraverso la storia: «Vorrei allenare un giovane Gianni Rivera, il mio idolo da ragazzino: prima che milanista ero riveriano. E poi Giampiero Boniperti, che ho avuto come presidente: un uomo straordinario, non solo a livello sportivo». Ma la fuga, nel tempo o nello spazio che sia, non sembra davvero nelle sue corde, almeno al momento. «Quando i colleghi dall’estero mi raccontano che, finito il lavoro, fai una vita normale, mi vien voglia di provare, però io all’Italia sono legato emotivamente. A casa sto bene. Chi fa il mio lavoro è un privilegiato e io ne sono ben consapevole. Soltanto, continua a sembrarmi distorto il fatto che dopo una sconfitta non ho la libertà di fare una cosa qualsiasi, ma devo rintanarmi in casa a fare la buca nel divano, in attesa che passi la buriana».