MIHA SI RACCONTA, La Jugoslavia e Arkan...
Nella puntata di ieri de la Tribù del Calcio su Mediaset Premium è stata proposta un'intervista esclusiva a Sinisa Mihajlovic, l'allenatore della Fiorentina, che racconta la sua vita durante l'esplosione della guerra in ex Jugoslavia, il suo paese, a inizio anni Novanta: "Avevo 18 anni, giocavo a Vojvodina e tornavo a casa ogni due-tre settimane. Fino ad allora nessuno badava a chi fosse serbo, croato, o bosniaco: anzi, ci si sposava anche, come avevano fatto mio padre, serbo, e mia madre, croata. Ricordo che un giorno telefonai a casa e dopo un po' chiesi a mia madre cosa fossero i rumori che sentivo in sottofondo. Lei mi rispose che stavano sparando, che il giorno prima avevano ucciso molte persone nel paese vicino, mentre ora la battaglia si era spostata lì. Fu un periodo terribile. Quando in estate mi trasferii alla Stella Rossa i miei genitori scapparono di casa e mi raggiunsero a Belgrado, perché ormai il nemico era ovunque, nella casa vicina, nella tua stessa famiglia. Un mio zio, Ivo, fratello di mia madre, un giorno la raggiunse al telefono e le disse che non doveva andarsene, ma che doveva restare a casa così avrebbero ammazzato suo marito, mio padre".
Nel corso dell'intervista viene poi chiesto a Mihajlovic di Arkan, il leader paramilitare serbo negli anni della guerra. A questo proposito l'allenatore della Fiorentina dichiara: "Era mio amico: l'avevo conosciuto perché era il capo dei tifosi della Stella Rossa. Quando Arkan andò a liberare Vukovar, il mio paese, fece numerosi ostaggi e ad uno di questi trovò un'agenda con i miei numeri di telefono. Così mi chiama a Belgrado e mi dice che c'era uno che diceva di essere mio zio: se era vero lo avrebbe liberato, altrimenti lo avrebbe ucciso. Era lo zio Ivo: non so se lui al mio posto avrebbe fatto altrettanto, anzi sono sicuro di no, ma non avrei sopportato un tale peso sulla coscienza e così ammisi che era mio zio e Arkan lo liberò. In quel periodo nella mia casa di Belgrado, una casa di 80 metri, ospitavo anche 50-60 persone. Ogni giorno suonavano al campanello famiglie disperate, e tutti mi chiedevano di aiutarli. Io nemmeno li conoscevo, ma li guardavo in faccia e gli dicevo di entrare. Ricordo che per tre mesi vissi in albergo e a casa mia feci dormire decine di persone alla volta: quando tornavo dovevo saltare tra l'una e l'altra, gli davo da mangiare e gli compravo tutto quel di cui avevano bisogno".