ABIDAL, Decide sempre il destino
«Decide il destino. Esiste un disegno superiore che dobbiamo accettare. Se io, quel giorno di undici anni fa (quando fu scelto dall'allenatore del Monaco Claude Puel, giunto a Nizza per valutare in realtà Dominique Aulanier che invece non divenne mai famoso, ndr) avessi avuto la febbre, non avrei giocato. Nessuno saprebbe chi sono. Andrei in giro per Lione a dipingere pareti e installare parquet.» Esordisce così Eric Abidal, fuoriclasse del Barcellona, all'intervista con GQ che gli dedica la copertina sul numero in edicola dal 27 luglio, luglio, con una foto esclusiva in cui mostra per la prima volta la cicatrice dell’intervento chirurgico a cui è stato sottoposto lo scorso inverno.
Abidal non è solo un campione di calcio. La sua storia sterza improvvisamente un giorno di marzo del 2011, quando il medico del Barcellona, Josep Fuster Obregon gli dice senza mezzi termini: «Hai un tumore, un tumore al fegato, ti opero la settimana prossima.» «No» risponde lui «Mi operi domattina. Non voglio pensarci tutto quel tempo.» Come poi sia andata, lo sa chiunque abbia visto Abidal - con la fascia da capitano - sollevare la coppa dopo la finale di Champions League con il Manchester United. E con quanta saggezza abbia affrontato la sfida con la malattia è lui stesso a raccontarlo nella lunga intervista che GQ gli dedica: «Per anni, con il Barcellona, sono andato in giro per ospedali e istituzioni a visitare gente malata, orfani. Dunque ero preparato, sapevo che cosa dire e cosa fare. Ho imparato che è una cosa normale, che è la vita, può colpire chiunque. "Perché proprio a me?" Non l'ho mai pensato, sarebbe disonesto. Il giorno in cui Puel mi vide giocare per la prima volta mica mi domandai "Perché proprio a me?" Eppure è la stessa cosa.» Alla notizia del male che aveva colpito Abidal, tutto il mondo del calcio gli si è stretto attorno con un moto di solidarietà senza precedenti, ma la frase che Eric non scorderà mai è quella del professor Fuster subito dopo l'operazione: «Mi ero appena svegliato dall'anestesia e mi ha detto: "Caro Eric, ci vediamo a Wembely, io ci vado di sicuro e tu quella sera ci sarai" pensavo fosse matto.» Ma la profezia di Fuster - ai tempi il Barcellona era solo ai quarti di Champions - si avvera puntuale, anche se Abidal, un'ora prima di scendere in campo, non sapeva che avrebbe giocato.
«Guardiola ci ha dato le ultime raccomandazioni e ci ha letto la formazione. Nessuno ha battuto ciglio. Tranne me, ovvio. Poi ho cercato Puyol con lo sguardo e gli ho chiesto "Ma perché non giochi?" Lui mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: "Io adesso non conto, quello che conta sei tu, non preoccuparti di me." Capisci che capitano cazzuto abbiamo? Questo è il Barcellona, la squadra, il gruppo, i compagni vengono prima di tutto. Guadagniamo un sacco di soldi, ma ci alleniamo con la stessa voglia di quand’eravamo bambini. Ne ho visti di giocatori che diventano ricchi e cominciano ogni frase con “io, io, io”. Ecco, al Barcellona non ci sono. Tra noi ce lo ricordiamo a volte: è un gioco, ci pagano per fare qualcosa di bellissimo, facciamolo seriamente ma senza prenderci troppo sul serio. È vero, nel calcio c’è chi se la tira troppo. Chi esaspera.» E a proposito dell'importanza del gruppo, di come sia fondamentale per condividere gioie e sofferenze, Abidal continua: «Non c’è sofferenza a perdere una finale mondiale, nulla di personale almeno, perché si perde e si vince come una squadra. Questa è la mia educazione. Neppure il tumore è una partita solitaria. E' un gioco di squadra. Senza l'aiuto della famiglia, della gente comune degli altri malati e dei compagni, non si vince».